Una giornata in missione

Ben ritrovato amico mio.

È un po’ che non ci parliamo. Vari impegni mi hanno tenuto un po’ occupato nella mente e nel corpo. Occupato con cosa? Mi viene chiesto spesso. Capisco la curiosità di sapere come sia una giornata tipo qua.

È complicato.. lo è perché non voglio stare a raccontarti una lista delle cose che faccio. Quindi cercherò di non tediarti a lungo con frasi ammorbanti e noiose.

Cosa vuol dire vivere qua? Probabilmente avere attenzione. Bisogna avere attenzione a cose a cui si è sempre dato per scontato. L’esempio migliore è quello dell’acqua. Non parlo solo dell’attenzione allo spreco, ma anche la cura giornaliera necessaria ad avere abbastanza acqua da bere. Sapere che si ha un quantitativo limitato, e quindi dosarlo di conseguenza. Sapere che la riserva deriva da pozzi alimentati con piccoli generatori. E se questi non funzionano allora può non arrivare l’acqua.

L'attenzione tutte le sere di mettere la zanzariera al letto per non rischiare di prendere la malaria. O l’impegno nel risparmio del consumo energetico, per evitare lo spreco di diesel che alimenta i generatori.

Il cibo è molto semplice e segue la famosa stagionalità. Donne girano per le strade e per la missione con cesti pieni di frutta e verdura sulla testa, andando porta a porta, con indosso vestiti dai colori incantevoli. Con un dollaro ti compri un sacchetto pieno di bei pomodori o di cipolle, oppure 6 o 7 mele. Con 7 dollari puoi comprarti un pollo oppure con 3 o 4 dollari ti compri 30 uova. Questa cosa è per me molto affascinante. È il secondo aggettivo che associo a questo posto: Semplicità. La semplicità delle giornate, del cibo e delle persone. L’odore dei campi, che per noi romagnoli è molto familiare, le donne sedute fuori casa intente a sbucciare arachidi per farne il burro, delizioso aggiungerei, o a spennare un pollo oppure occupate a lavare i panni in una bacinella. I bambini che giocano correndo, o costruendosi macchinine con i cartoni del latte. Quanta bellezza in questa immagine che mi porterò sempre nel cuore.

Questo è il contesto principale attorno al quale si sviluppa la mia giornata. Io lavoro nell’ospedale, e dicono che lavori in collaborazione con l’amministratore gestendo progetti come un project manager. Ma nella realtà io faccio solo ciò di cui c’è bisogno. E per me questo è molto importante, perché vivo questo anno come un'esperienza di servizio da volontario. Metto a disposizione della comunità la mia persona con le poche cose che sa fare. E sia chiaro, non mi voglio sminuire o fare il modesto. Mi piace essere ciò che sono e vivo questa cosa con il sorriso.

Quando si tratta di lavori di manutenzione, o di creare qualcosa mi sento molto a casa. Mio babbo mi ha insegnato bene ad usare il più possibile la testa, a farmi quella domanda in più e ad applicare anche un po’ di inventiva per avere una soluzione diversa. Ma ci sono anche mansioni completamente nuove per me. Ho dovuto discutere di pagamenti con i pazienti, ho dovuto pianificare trasferimenti in ambulanza. Ho imparato come si muove un ospedale, come si devono fare le cose. Mi avevano dato anche una scrivania per un po’, ma ammetto di aver lasciato molto spesso la sedia vuota. Devo forse ancora abituarmi a questo, ma penso non sia per me stare seduto ad aspettare. Quando posso vado sempre di persona a visionare, cercando di pensare e capire se c’è un problema. Sono molto pratico nonostante la mia propensione alla prolissi. Mi muovo sempre…O quasi.

Una volta che mi sono fermato è stato quando, un tardo pomeriggio, mentre finivo di fare i miei giri, passando per l’ospedale, ho sentito un pianto nei corridori. Mi ricordo di essermi bloccato, a fissare il vuoto, in ascolto. Sapevo cosa fosse. Nonostante non lo avessi mai sentito in vita mia, lo sapevo. Un suono che, chi come me, non lavora in un ospedale, probabilmente non ha mai sentito. Era il pianto di una madre. Una madre che aveva perso il figlio appena adolescente.
 
In quel momento, in cui ero di corsa, come se fossi in una lunga giornata lavorativa italiana, mi sono ricordato dove fossi. Non ero in Italia, non ero nella mia officina. Ero in Zimbabwe, in un ospedale, e nonostante alcune similitudini con il mio lavoro, era completamente diverso.

Ed ecco la domanda che automaticamente è arrivata dritta al cervello, una domanda che è sempre stata lì ma in quel momento è apparsa più nitida e vivida che mai:


Sarebbe morto in Italia?



Ed ecco il terzo aggettivo: Fatica. Non fatica fisica, ma mentale e spirituale. Una debolezza mia, che sono sempre stato davanti ad un tornio, ed ora mi ritrovo accanto all’ingiustizia e alla morte. Quante domande mi fa nascere l’ospedale.


La più grande è: Cosa ci faccio qui?

Per rispondere, mi viene in mente una piccola scena: era buio in missione, la corrente non c’era e il silenzio era uno di quelli che fa rumore. In cielo una bellissima stellata e la luna iniziava ad illuminare le case. Ma ecco che nell’aria si alzava un canto. Un canto che riconobbi subito. La luce di una candela filtrava da una finestra e un sorriso è apparso sul mio volto.
“Happy birthday to you, Happy birthday to you ……”
Una festa di compleanno, senza nemmeno la luce, nella semplicità più totale.

L’ ultimo aggettivo è l’amore. L’amore che vive in mezzo alla semplicità, all’attenzione e alla fatica. L’amore che unisce questi mondi diversi. L’amore che unisce un tornitore italiano ad un ospedale in Zimbabwe.


Ecco perché sono qua.