Trovare una ragione

C’è stata una pausa nei nostri articoli, si sono fatti più diradati e gli ultimi sono sempre stati scritti da Claudio.
Devo essere sincera, è una necessità esserlo in realtà. Ho fatto fatica, fatica a scrivere, a descrivere, a digerire quello che sto vivendo. Scrivere per me è sempre stato sinonimo di fare ordine. Quando ci prendiamo quel piccolo tempo per imprimere i nostri pensieri su carta gli diamo una forma che era nel pensiero solo immaginaria. Dare una forma a qualcosa di astratto significa conoscere, e alla conoscenza consegue la responsabilità di farsi carico di un significato, di un messaggio, di un’intuizione. Ci permette di carpire i confini, l’origine e le implicazioni dei nostri pensieri. Quando scriviamo siamo disposti a scoprire le carte, a leggerci, a comprenderci, guardarci scomposti e in disordine e a cercare un senso nel caos. Siamo disposti a lasciare al nostro noi futuro una traccia della strada che abbiamo percorso, così per ricordarci, soprattutto nei momenti difficili, che le paure di ieri sono le consapevolezze di oggi, che le difficoltà superate lungo la strada sono le basi su cui poggiamo, che rileggendosi, a volte, si prova una sensazione di affetto e comprensione verso quel te spaventato, tormentato e indeciso. Sorrido, spesso, quando mi rileggo, e a volte, non mi riconosco, tanto quella me ha camminato. Questo mi ha sempre aiutato a volermi bene, a non avere rimpianti, a ricordarmi perché alcuni passi sono stati fatti oggi e non ieri, a non ragionare con il senno del poi. Mi ricorda che esiste un tempo giusto, ma che solo conoscendo il percorso fatto si può imparare a riconoscerlo e a sceglierlo.
Detto questo, sono stati due mesi di profonda introspezione. Ed era, ad oggi ne sono sicura, anche quello che cercavo venendo qua. Avevo bisogno di mettermi davanti a me stessa, avevo bisogno di mettermi alla prova, non professionalmente ma umanamente. Perché ho realizzato, o meglio compreso, ora forse più che mai, come mi sto, ci stiamo, disumanizzando. E avevo bisogno di ritrovare me stessa, ritrovare l’umanità, avevo bisogno di sentire di nuovo le emozioni che bruciano la gola, di sentirmi vulnerabile, ma parte di qualcosa di grande. Avevo bisogno di sentire tutte quelle cose che il nostro modo di vivere, in constante corsa verso il prossimo obiettivo, poco incentrati sul presente ma proiettati sul futuro, mi impediva. Non riuscivo più ad apprezzare un tramonto, un momento di condivisione, una carezza, in testa solo cose da fare e disfare.
Questo modo di relazionarci, dietro un telefono, con video chiamate o audio inutilmente lunghi è ormai parte fondamentale della relazione di ognuno di noi. Perché partecipare a qualcosa se si può seguire online? Una riunione, una lezione, un corso, un aperitivo, un confronto con una persona cara. Non c’è bisogno di guardarsi in faccia, basta portare a casa il contenuto. Il contenuto però, ho capito, passa sempre attraverso un cuore, il cuore di chi l’ha pensato e lo condivide. E guardarsi in faccia, guardare come la persona di fronte a noi sta seduta, comprendere da come si muove nello spazio attorno a noi, se ciò che dice corrisponde a ciò che sente, non è scontato. E’ essenziale. Il nostro corpo e lo spazio che occupa ci dice tanto di chi siamo e di chi sono gli altri. E tutto questo lo stavo perdendo. Mi stavo abituando anche io, disimparando ad ascoltare il silenzio delle persone, che è fatto di gesti, di sguardi, di espressioni. Smettendo di cercare veramente l’altro. Mi sedevo anche io comodamente sul divano di casa, partecipando a distanza a lezioni e riunioni, videochiamando le mie amiche per aggiornarci, “ho mille cose da incastrare, non ho tempo per vederci, chiamiamoci dai” pensando fosse uguale. Ma non lo è.

E’ sempre la sottile linea che separa l’essenziale dal superficiale…
e che fa tutta la differenza.

Ora.. sarà la distanza? O la differenza di linguaggio? Entrambe forse, ma qui ho riscoperto la bellezza dell’incontrarsi, che significa che io sono qui per conoscere te e farmi conoscere, non solo per veicolare un messaggio o riempiere il mio tempo.
Qui ho davvero percepito quanto la comunicazione sia importante. Qui che ogni giorno mi trovo davanti a pazienti che non parlano inglese, e devo sforzarmi di capire cosa mi dicono, e loro a loro volta, di capire cosa io cerco di spiegargli. Tutto il linguaggio non verbale che avevo perso, che avevo smesso di leggere, torna ad essere fondamentale e straripante di significato. La fatica che c’è dentro la difficoltà di incontrare e cercare l’altro è anche il regalo più grande, e lo sforzo che ti concedi… fa la differenza.
E’ più facile anestetizzarsi un po’ e non perdere il controllo, non fare sforzi, non mettersi in gioco, stare dietro la linea, ascoltare senza intervenire, seguire senza partecipare. E’ più facile ma ad ormai sei mesi dall’inizio di questa esperienza, ho capito che non fa per me. E anche nel mio lavoro, dove schermarsi a volta è necessario, ho capito che col tempo si tende poi a farsi prendere la mano e tutto rientra nella normale ruotine, anche il dolore e la vita di una persona. Niente ti tocca più, se tu non vuoi.
L’Africa mi sta salvando. Con le sue mille contraddizioni riaccende il fuoco che in me sentivo spento. Questa scelta forte che abbiamo fatto, mi rimette al mondo come essere umano. Mi insegna di nuovo il valore della sofferenza, della dignità, della vita.

Mi fa venire voglia di credere nelle persone, al costo di rimanere delusa, di abbracciare, di condividere, di costruire insieme.

Così come dicevo, sono stati due mesi in cui a fatica, mi sono riappropriata di me stessa, della mia dimensione, scoprendo e riscoprendo che lasciarsi coinvolgere è la sfida e anche il regalo più grande.

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E così mentre scrivo, sul letto della nostra camera, fa già caldo fuori, una piccola brezza mi accarezza le gambe e mi da tregua, penso a quei bambini ricoverati in questi giorni. Bambini con ustioni dal 20 al 50% del corpo, tutti con meno di due anni. Penso alla fatica che è stata sentirli gridare dal dolore per un’ora e mezza durante le medicazioni, tutti i giorni, nonostante gli antidolorifici. Guardarli mentre si dimenavano e urlavano sperando che ogni debridement fosse l’ultimo, sapendo di essere io la causa di quel temporaneo dolore. Mi ha richiesto più volte di estraniarmi e cercare di pensare solo alla medicazione da fare, senza lasciare che le urla entrassero dalle orecchie per depositarsi più nel profondo. Avrei voluto piangere a volte, una soprattutto, quando una delle madri, la più giovane, con il bambino più grave, nascondeva la testa tra le braccia mentre stringeva suo figlio e mi permetteva di medicarlo. Lo sapevo che stava piangendo perché quegli urli scuotevano il mio cuore, come potevano non scuotere il suo? Ho cercato di consolarla, di spiegarle che il dolore di oggi era parte della guarigione di domani, senza fare promesse, perché siamo in Africa, le risorse non ci sono, e ho ben chiaro che un bambino così piccolo, basta una piccola infezione a portarselo via. Così ad un certo punto le altre madri si sono fatte un piccolo cenno col viso, che ho potuto scorgere mentre cercavo di preparare le garze, si sono avvicinate, mi hanno aiutato a terminare la medicazione mentre la madre si allontanava e sfogava il suo dolore. Non c'è stato bisogno di parlare, non c'è stato bisogno di chiedere. Ognuno ha fatto la sua parte, ognuno con un macigno nel cuore e la gola in fiamme ha completato il suo compito. Ci sono stati dei grazie, ma gli sguardi di intesa, di supporto e di commozione che ci siamo scambiate in quei momenti vanno e andranno sempre oltre qualunque forma di comunicazione verbale. Quel giorno, una madre zimbabwana di 19 anni si è ritrovata a condividere uno dei momenti più difficili della sua vita con me, una straniera venuta da lontano, una sconosciuta. Ha lasciato suo figlio alle mie cure e si è mostrata vulnerabile, qui in una cultura dove esternare e vivere emozioni è raramente concesso. Questo regalo, questa fiducia, questo scambio,

è ciò per cui vale la pena sentire tutto quel dolore.

Così anche nei miei giorni liberi sono passata a vedere come stavano quei bambini, e le madri, nonostante la poca conoscenza di inglese, mi hanno regalato dei saluti e degli sguardi che porterò sempre nel mio cuore. Perché abbiamo condiviso dei momenti difficili, e quando condividi il dolore, quando condividi la vita, c’è qualcosa che ti unisce anche se vieni da paesi e culture estremamente differenti.
E così, mentre gli Hoobastank infuriano nelle mie cuffie:

“ That I just want you to know
I’ve found a reason for me
to change who I used to be
A reason to start over new
And the reason is you
I’ve found a reason to show
A side of me you didn’t know
A reason for all that I do..”

Penso che bella che è la vita. Che bello che è il mio lavoro. Che bello l’incontro con l’altro, che bello è lasciarsi attraversare dalla vita altrui. Che bello è l’essere umano.