Era davvero così che te lo immaginavi?

Alla fine quella birra ce la siamo bevuta noi.
Sono sicura che ce ne sia una anche per voi, sia qui, se avete voglia di venirci a trovare, sia in Italia, quando torneremo.
La grazia di oggi è proprio questa, un momento di condivisione improvvisato, tra birra e patatine, con il sole africano che va giù e colora il cielo in un modo che mi crea sempre il magone.
Tanto è fantastico, tanto è unico, tanto è un dono.
Ogni giorno diverso, ogni giorno sempre lì..a chiederti di fermarti, qualunque cosa tu faccia, per alzare lo sguardo e godere di ciò che più vero e gratuito abbiamo.
La grazia di oggi è l’abbandono delle difese, è il muro che si è tirato giù.
E’ guardarsi in faccia e chiedersi “Come stai?”.
“Era davvero così che te lo immaginavi?” …
Qualche anno fa era già ora di bilanci, proprio perché sapevo che il mio tempo in questa terra lontana era contato. Ora, mentre aspetto di poggiare cautamente i pro e i contro nella mia bilancia personale, mi ritrovo a mani vuote.
Tutto ciò che provo è incredibilmente nuovo e in divenire.
Troppo incompleto per poterlo definire.
Voglio però comunque imprimere su carta quello che mi ha fatto emozionare in questi primi 15 giorni.
La pace nel momento di devotion la mattina, prima di cominciare il turno, quando tutto il personale dell’ospedale si riunisce attorno al memoriale di Marilena e Luisa e prega cantando per cominciare
la lunga giornata di lavoro. Che tu creda in Dio, nella scienza, o non creda in niente, cantare insieme è qualcosa che unisce le anime, che unisce anche me, nonostante la barriera linguistica, e mi fa cominciare con la pace nel cuore ogni turno.
La difficoltà nel volersi esprimere al cento per cento e nel rendersi conto di non riuscire ad arrivare, non come si vorrebbe, non ancora.
La salvezza di apprendere ogni giorno, di mettermi alla prova nuovamente, è l’ancora che sta salvando la passione che ho sempre avuto per questo lavoro dopo due anni di apnea.

Finalmente respiro.

Le passeggiate a fine turno che rischiarano la mente e alleggeriscono dalle fatiche.
Il dolce oziare come non lo conosciamo più, fatto di noia, di “Come riempio questo tempo?”, con la risposta che, che tu voglia o no, non tarda ad arrivare…
non tutto il tempo va riempito. A volta va solo sentito.
Tra una video chiamata e un’altra, il peso della scelta, che fa sentire la mancanza dell’abbraccio di casa.
La tenacia con cui ci raccontiamo i progetti prossimi, carichi di entusiasmo, cercando di confortarci in quella pazienza che doverosa accompagna ogni nuova scelta.
I visi dei pazienti che mi sono passati fra le mani,
disposti a fare i chilometri per arrivare qui,

l’infinita dignità nella sofferenza,

lo sgomento e l’incertezza di fronte ai bambini,
al peso della vita troppo grave,
su quei corpicini malnutriti, deboli, incapaci di reggere un peso più grande di loro.
Troppo piccoli per le flebo, per le mascherine dell’ossigeno,
per quei letti.
Troppo piccoli eppure così pesanti da sostenere.
Il cuore che si allarga, che contiene, che trattiene, in una misura indicibile e non ancora calcolabile.
La mente che cerca di alleggerire ciò che il cuore fa straripare.
Io che sorrido, tra me e me, perché sono ancora capace di emozionarmi,
di lasciarmi toccare, da un volto, dalla sofferenza,
dalla novità e dalla gratitudine,
sono ancora capace di sentire qualcosa,
dopo questo periodo di quarantena emotiva,
sorrido.
Alla fine il bilancio è positivo.
Come direbbe Robert Frost:

“ Ho scelto la strada meno battuta
e ha fatto tutta la differenza”