Dolce Amaro

Mal di testa. Mal di gola.

Ci sta "ho preso freddo" penso, sta arrivando l'inverno e la sera la temperatura scende di brutto. Poi mi sveglio e vado a lavoro e solo per arrivarci, saranno si e no 200 metri da dove abitiamo, mi faccio una bella sudata.

C'è qualcosa che non va.

Sta settimana ho cominciato il mio orientamento in opd, out patient department, il nostro pronto soccorso per intenderci. Appena elenco i miei sintomi all'infermiera che lavora con me mi dice subito "hai bisogno di riposo, devi farti vedere." Ma si sa noi sanitari siamo i peggiori pazienti, super attenti quando si tratta degli altri e incredibilmente lascivi verso noi stessi. Ma no, mi dico, ho preso freddo, “vedo come va la mattina magari sto meglio..” le rispondo.

Iniziano ad arrivare i primi pazienti e mi accorgo che le cose peggiorano solo, quindi mi decido e mi faccio registrare come paziente, mi prendono i parametri, tutto nella norma ovviamente, e mi metto in attesa del tampone per il Covid-19. Non so quanti ne ho fatti nel corso di questi 2 anni e mezzo, per contatti vari a lavoro, per screening di base una volta al mese, mai uno positivo.

Saranno passati si e no 5 secondi da quando l'infermiera ha fatto cadere le gocce sulla striscia reagente, chiedo alla studentessa di sbirciare il risultato..se qualcosa si vede.

Capisco l'esito dai suoi occhi, che mi guardano con un velo di panico, mi alzo e le due lineette sono lì.

Non ci credo.

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Inizia nella mia testa la sequela delle azioni compiute nei giorni scorsi. La consapevolezza di essere sempre stata attenta, mascherina, lavaggio delle mani, com'è possibile mi dico?

Mi allontano a sedere su una panchina mentre chiamano il medico, chiamo Claudio e lo sento imprecare al telefono. Sta terminando i lavori di ristrutturazione della casa di Marilena e come in ogni lavoro il grosso si macina negli ultimi giorni...vogliamo che tutto sia pronto per quando arriveranno i ginecologi e i cardiologi dall’Italia.

Mi raggiunge subito, lo testano e per fortuna è negativo. Arriva il medico che mi sorride e mi dice "avevo visto che ieri non stavi benissimo", rido. Porca troia.
Mi visita, mi prescrive la terapia e mi dice: " se vuoi andare a vedere le montagne puoi, ma ovviamente per la spesa ti devi organizzare" sorrido. Siamo in Africa alla fine, non mi va così male, meglio della quarantena in centro citta. Combatto un po' insistendo sulle mie 3 vaccinazioni, sperando che mi riduca l'isolamento, ma niente.
Vinco ben 10 giorni.

Torno a casa, la testa mi scoppia, prendo tutte le pillole che mi spettano e mi butto a letto. Mi sveglio qualche ora dopo, Claudio nel frattempo si è dato da fare per organizzare la casa per l'isolamento, a lui spettano 5 giorni di quarantena prima di essere testato di nuovo e decidere se sarà libero o meno. Decidiamo di spararci la maratona di Harry Potter, io dal letto appositamente ruotato verso la sala e lui sul divano. Per vedere lo schermo del PC mi serve il binocolo. Ma vabbè.

Mi annoio.

Ma come può essere di già?

E capisco che, come sempre, quando siamo in una situazione costretti non riusciamo ad apprezzare quasi nulla. Non al primo sguardo almeno.
Essere completamente dipendenti da qualcuno ti fa comprendere quanto sei legato alle tue abitudini. Tipo per me la giornata non comincia senza sedermi con calma, prepararmi la mia colazione, leggendo le notizie dal mondo. E ora devo aspettare che Claudio mi prepari ciò che chiedo, devo mangiare a letto e questo momento perde la sua magia. Perché la preparazione è per me un rituale di buongiorno al mondo e così non lo gusto e non lo assaporo veramente.


Per l’ennesima volta da quando sono qui mi viene chiesto di uscire dalla mia comfort zone.
Forse sarà proprio questo che con fatica devo imparare.

Saranno dieci giorni lunghi, in cui la frustrazione e la sensazione di inutilità per essere qui e non poter continuare il mio percorso in ospedale, faranno da padrone.
Mentre questo turbinio invade la mia mente, riconosco subito la serialità di una modalità di pensiero costruita e insita nella società e nel mondo in cui viviamo, che se non fai, non sei, se non lavori o produci, non ti sei conquistato la giornata.
E’ ciò che odio di più, che ho voluto allontanare con questa scelta di vita semplice,
eppure, inevitabilmente, ne sono vittima anche io.

E poi eccola lì, fare capolino anche lei, la noia, nella mia vita in Italia mi è quasi impossibile provarla,
con il flusso di impegni, il lavoro, l’organizzazione del poco tempo libero, pensato
minuto per minuto.
E’ un’emozione che poco conosco e che poco so gestire.
Così come lo spazio vuoto, impossibile da riempire di cose da fare,
nessuna TV in sottofondo che copra i pensieri,
solo io con me.
Che fatica, che battaglia.
Probabilmente la più grande del mio tempo qui.

Comprendo, con un’amara dolcezza, che in qualunque parte del mondo ti trovi puoi riempire il tempo, imbottire lo spazio che ti circonda, per far sì che tutto questo copra ciò che hai dentro, ma alla prima frenata, alla prima pausa o caduta, ciò che hai dentro troverà il modo di venirti a trovare,
che tu lo voglia o no.
Il cassetto di paure, frustrazioni, aspettative, verità che tieni ben chiuso e stipato prima o poi si aprirà e dovrai fare i conti con la relazione più difficile di tutte,
quella con noi stessi.

Mi viene in mente una frase del film Vanilla Sky con due giovanissimi Tom Cruise e Penelope Cruz:

Perché senza l’amaro, amico mio,
il dolce non è poi tanto dolce.”


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